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Fantascienza
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Fascia 16-19
Cenere e marmellata

Ricordo che dalla finestra di camera mia non entrava mai luce.

Mai un raggio di sole che filtrasse dalle persiane impolverate, non una singola chiazza di mattino che si allungasse sulle assi brune del parquet, neanche la parvenza di un flebile bagliore che riscaldasse tenue la stanza in ombra, tutto era coperto da un velo di oscurità soffocante: e così il mondo, avvolto nella tenebra, sotto i miei occhi scompariva.

Non rammentavo l’ultima volta che avevo sentito sulla pelle nuda il caldo bacio del sole, né tantomeno la delicata carezza della pioggia, i lunghi anni passati in quella rete di bunker avevano fatto sì che anche i ricordi venissero sotterrati e dimenticati assieme alle nostre vite e così, mentre in superficie il mondo cadeva a pezzi, io ero lì a condurre la mia placida esistenza in quella tomba, il mio tempo ormai rinchiuso tra squalide pareti di pietra.

L’orologio segnava le 08:16 del 12 maggio 3072, avrei dovuto essere già pronta per la colazione, eppure il tepore delle coperte mi appariva molto più allettante del solito caffè annacquato accompagnato dalle due fette di pane stantio e marmellata di albicocche. Non mi era mai piaciuta la marmellata di albicocche. Sembrava quasi che il suo sapore dolciastro volesse illuderti che la giornata sarebbe stata altrettanto gradevole e zuccherina, quando invece nutrivi già la chiara consapevolezza che ad aspettarti era la monotona e stantia quotidianità di sempre, solo con uno spiacevole retrogusto chimico in più sulla lingua. Lì erano tutti un po’ come la marmellata di albicocche, facevano promesse su promesse, così che la speranza potesse essere lo zucchero che addolciva le tue giornate, e invece alla sera ti rendevi conto che in bocca non ti era rimasto nient’altro che il sapore di un’amara delusione.

Eppure, quel giorno sarebbe stato diverso. Quel giorno sarei tornata a posare la testa sul cuscino con il palato inondato di miele, quel giorno, o almeno così dicevano, sarebbe stato il giorno zero, saremmo ripartiti dalle fondamenta e saremmo rinati come fenici e, sarà stato per la paura di smettere di sperare, per la scorrevole monotonia dei giorni segnati sulla sveglia, o per la marmellata che ora mi ritrovavo a spalmare sul pane, ma chissà per quale strano motivo ancora una volta decisi di credere alle loro vane promesse.

Mi riscossi dai miei pensieri e giunsi a passo svelto nella sala sperimentazioni dove mi attendeva impaziente una fila di medici ricoperti di bianco dalla testa ai piedi, sembrava quasi indossassero le vesti di angeli con i loro camici immacolati, i guanti in lattice e le mascherine alzate fin sopra al naso. Non sarebbe stato troppo doloroso, dissero, si trattava solo di una puntura: mi avrebbero iniettato una soluzione nel braccio e dopo poco avrei aperto gli occhi risvegliandomi in superficie nel corpo del mio clone, il prototipo della me sotterranea migliorato a tal punto da poter sopravvivere anche in superficie nonostante i gas nocivi e le sostanze radioattive presenti nell’aria causati, dopo tutte le guerre, dalla catastrofe che portò alla distruzione del 99% della popolazione e il cui restante era adesso costretta lì giù a marcire, attaccata alla vita per uno straccio di speranza.

Mi fecero accomodare senza troppi complimenti su una grigia sedia in metallo, mi ci abbandonai lasciando le punte dei piedi penzoloni a un centimetro dal pavimento. D’un tratto avvertii qualcuno tenermi il braccio e un pizzico solleticarmi la pelle, e così il mondo, avvolto nella tenebra, ancora una volta sotto i miei occhi scompariva.

Quel giorno fui risvegliata dal fragile bagliore del sole che picchiettava sulla soglia delle mie palpebre, il solletico del vento tra le dita e l’odore pungente di carta bruciata sotto il naso; avrei avuto bisogno di aprire gli occhi per comprendere che, se quello fosse stato il sentore di pagine andate a fuoco, allora il mondo non era altro che il cinereo rimasuglio di un libro andato in fiamme: affusolate dita di fumo grigio si allungavano verso l’alto dai cumuli di macerie dipingendo un cielo livido e cupo che attorniava il mondo di una tetra foschia plumbea. Non dimenticherò mai la placida quiete smorta che aleggiava in quel campo di devastazione, il rumore dei miei passi che, avanzando, interrompevano l’eterno riposo di una terra massacrata, estinta, fine al solo passivo esistere di un corpo senza vita, un cadavere immobile, indifferente allo scorrere del tempo e ignaro di come la morte avesse potuto ridurre le sue esangui spoglie in polvere e fumo. Mi guardai un’ultima volta attorno, poi aspettai indicazioni dall’auricolare inserito nel mio orecchio sinistro: «Tutto bene lassù? Ci sono problemi con l’esperimento?», «No dottore, tutto procede secondo i piani, potete procedere con la somministrazione agli altri cittadini. Siamo pronti a ricostruire il mondo.»

E ad oggi mi abbandono qui, dopo sessant’anni, a contemplare la vista della città che abbiamo costruito con tanta fatica, da quel giorno senza luce, adesso mi ritrovo sul davanzale della finestra di casa mia ad ammirarla dal suo punto più alto: fuori i colori del cielo terso al tramonto ricordano quelli di una timida fiammella che non brucia, ma dipinge le nuvole di un tenue arancione con le sue lingue di fuoco, le spruzza di rosa e le spennella di giallo per creare un quadro che si riflette con vanto nel limpido specchio d’acqua ai suoi piedi. Non c’è neanche più la parvenza di un’ombra di fumo, nemmeno allungando lo sguardo ai lati dell’orizzonte, sulla periferia: ormai nella nuova metropoli non esistono più fabbriche o impianti inquinanti, tutto funziona con le sole energie rinnovabili e con il duro lavoro di tutti i cittadini, l’impegno e la costanza; adesso le piante crescono rigogliose e adornano gentili i muri delle case lungo tutto il selciato sino al porto, dove i ciottoli pian piano si scompongono in un sottile letto di fine sabbia dorata che sbrilluccica di vaghi scintillii, lì dove viene raggiunta dalla mesta carezza delle onde che giocano a rincorrersi l’una dietro l’altra, schizzando e schiumando: è il vento a portarsi dietro il sapore del loro diletto che giunge sin qui sotto le note di una profumata brezza marina. E mentre il mondo si tinge delle sfumature del tramonto, i rumori della città giungono al mio davanzale portando con sé un caotico chiacchiericcio di fondo, interrotto qua e là dal latrato di un cane preso a rincorrere un gruppo di ragazzini in bici, sicché ora di macchine e trasporti di qualsiasi genere non se ne vedono se non elettrici; se mi concentro posso avvertire l’aria sferzare tra le chiome disadorne degli alberi vestiti degli stessi colori del cielo, scuotendoli e sfoltendoli delle loro foglie rigide e rinsecchite, che lente si posano in un tappeto di tramonto ricoprendo tutto il giardino.

Adesso il mondo è in ordine, e se non proprio l’intero pianeta, almeno quel piccolo spazio riportato alla vita che basterà, col tempo, a creare qualcosa di più grande, ma nel mentre portiamo nel cuore l’orgoglio di una vittoria guadagnata avendo preso quello straccio di speranza che ci era rimasto e avendovi intessuto il sogno di una nuova società prospera. Potrete dire che ciò è impossibile, che non si può rinascere dalle ceneri, che siamo uomini, non fenici, ma la nostra forza sta nelle promesse, nella dolcezza della marmellata di albicocche, perché la verità si trova negli occhi, e gli sguardi a cui decidiamo di credere sono quelli in cui riponiamo il seme della nostra speranza che annaffiamo lacrima dopo lacrima, goccia dopo goccia, dando vita ad un germoglio che sboccia sotto le intemperie di un profondo tormento.

Così, mi persi a pensare fissando il vuoto al calare del crepuscolo, e il mondo, avvolto nella tenebra, per l’ultima volta sotto i miei occhi scompariva: sotto i raggi spenti, nelle sere d’autunno, posiamo leggeri su fragili rami di sofferenza, come foglie secche lente a cadere, e noi, lenti a morire.

Pubblicato: 26 Gennaio 2023
Fascia: 16-19
Commenti
Il racconto è adorabile, scritto bene. Ho trovato interessante la trama, nonostante abbia fatto un poco di fatica a seguirla, poiché ad un certo punto la narrazione viene raccontata usando il tempo presente.
26 aprile 2023 • 17:29