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Capolinea

Il pullman si ferma davanti alla Banca di Credito Sardo e quando le portine si aprono salgo insieme ad altre due persone. Raggiungo il solito posto in fondo. Dentro non c’è nessuno, ma quando mi siedo tu sei davanti a me. Hai sempre lo zaino di scuola rosso, lo stesso sguardo mesto sul volto, gli occhi marroni come la cioccolata al latte e i capelli neri spettinati dalla corsa che probabilmente hai fatto per non perdere il pullman. È tutto uguale e diverso allo stesso tempo. Ci guardiamo senza dire niente, come ogni mattina da almeno un mese. Il pullman è testimone dei nostri silenzi, delle mani che vorrebbero incontrarsi ancora, degli sguardi che gridano il desiderio di colmare questa assenza insopportabile. Volgo lo sguardo verso il finestrino, proprio mentre il pullman si sta fermando davanti alla clinica di Sant’Elena, appena all’entrata di viale Marconi. Vedo noi due a quella fermata, in pieno inverno, con il freddo dentro le ossa che ci faceva tremare. Sento freddo anche adesso. Anche se sono seduta dentro il pullman, anche se la primavera ha portato con il suo arrivo un clima più mite. Mi concedo una rapida occhiata nella tua direzione e mi domando come possa essere un’assenza così presente, un silenzio così rumoroso. Passiamo sul ponte che collega Quartu Sant’Elena a Cagliari. Un ponte che vede ogni mattina macchine bloccate nel traffico, madri che accompagnano i figli a scuola, tanti incidenti e tante storie. Ha visto anche la nostra. L’ha vista nascere, crescere e poi indebolirsi fino a finire. E adesso è un testimone muto che osserva quello che è rimasto. Pezzi distrutti, spaccati, irreparabili. Mentre entriamo a Cagliari e passiamo davanti alla scuola media Ugo Foscolo, noto un particolare nuovo. Sulla facciata bianca è stato disegnato il volto di Foscolo, in un tripudio di colori. Sorrido nel constatare che i murales non sempre hanno come conseguenza quella di imbrattare i muri. Vorrei girarmi verso di te per fartelo notare, ma sono sicura che tu l’hai già visto prima di me. La prossima fermata è quella delle poste di San Benedetto. Non stacco gli occhi dal finestrino perché ancora una volta ci vedo lì. Ignoro la gente in fila visibile dalle vetrate e mi concentro su tutte quelle volte in cui abbiamo aspettato il pullman insieme proprio lì fuori, dopo la scuola. Sempre d’inverno, ma noi eravamo primavera. Ti saltellavo davanti per riscaldarmi e parlavo a ruota libera per non pensare al freddo; tu sorridevi e mi abbracciavi, nel tentativo di darmi un po’ di calore. Avrei voluto dirti che il suono della tua voce mi entrava dentro, mi scorreva nelle vene, mi si attaccava alla pelle e non voleva più andarsene via. Che mi bastava la tua presenza per farmi sopportare il freddo. Forse avrei dovuto dirtelo, almeno una volta, perché adesso questa rimane una delle tante cose che mai ti ho detto e mai più avrò occasione di dirti. Dopo le poste, il pullman percorre via Paoli per poi imboccare la rotonda ed entrare in via Dante, una via ricca di negozi, di vita, di persone, fino alla fermata di Piazza Repubblica. Una piccola piazza quadrata con delle panchine bianche rettangolari e sul lato sinistro l’entrata della stazione della metro. Di nuovo noi due, seduti su una di quelle panchine. Sento le nostre risate che ci avvolgono. Eravamo solo noi due e ci bastava. Rivedo le volte in cui la mia giornata era andata male e avevo bisogno di qualcuno a cui aggrapparmi. Tu trovavi le parole giuste per rendermi più serena, ma non volevi mai conforto quando qualcosa andava male a te. Testardo e orgoglioso, pensavi di essere abbastanza forte da affrontare qualunque cosa da solo. Eppure io ci provavo, anche se non volevi, anche se non chiedevi. Perché ho sempre intuito che non ci si salva da soli. Abbiamo bisogno di afferrare una mano tesa per non cadere, per impedire al mare grosso di tirarci giù e affogarci. La prima fermata di via Roma ha ancora noi due come protagonisti. Quando alzavamo la voce, ci facevamo male gridandoci contro cose che non pensavamo nemmeno, per poi subito provare a medicare uno le ferite dell’altra. Io ti urlavo in faccia che mi irritava qualunque tuo comportamento, quindi ti chiedevo scusa confessandoti che avevo bisogno di te nel tuo meglio e nel tuo peggio. Tu mi rispondevi che potevo anche andarmene se non mi stava bene qualcosa, ma nel vedere nei miei occhi la paura di perderti, ti avvicinavi abbassando lo sguardo e chiedevi scusa con un abbraccio. Ci facevamo male solo per poi curarci. Poco ci importava dei passanti che assistevano alla nostre sceneggiate. Dovevamo scaricarci subito addosso tutto il dolore che ci allontanava, perché solo sputandocelo in faccia saremmo stati meglio. Eliminavamo il veleno dalla puntura per farla sgonfiare e guarire. Ma i segni restavano ogni volta. Perciò arrivammo a un punto in cui le nostre urla non trovavano parole di conforto abbastanza grandi da cancellarle. E tutto iniziò a precipitare. In pullman, ti poggiavo la testa sulla spalla e ti osservavo chiudere gli occhi, per poi imitarti. Fingevamo che le cose andassero come sempre, ma su di noi si abbatteva qualcosa di più doloroso delle urla: il silenzio. Non avevamo più nulla da dirci. Tu mi accompagnavi a casa e prima di rientrare mi voltavo per chiederti scusa. Ma quanto poco contano le parole quando sono dette in ritardo? Oppure io scendevo all’improvviso, arrabbiata e con le lacrime agli occhi mentre tu rimanevi sul pullman. Camminavo a vuoto sotto i portici, passavo in mezzo alla gente, osservavo con sguardo disinteressato le vetrine e poi ti trovavo alla fermata successiva. Mi affiancavi e camminavamo in silenzio uno accanto all’altra, fino a quando non decidevamo che l’orgoglio non valeva la pena di perdere quello che avevamo. Altre volte, eri tu a scendere all’improvviso. C’era ancora l’illusione che uno dei due sarebbe sempre tornato dall’altro. Eravamo come due onde: perturbazioni che si muovono nello spazio spostando energia, non materia. Quando due onde si muovono andandosi incontro, finiscono per scontrarsi e formare un’unica onda. Quando però il contatto cessa, le due onde si separano e procedono in direzioni opposte. Così è successo a noi. Ci siamo incontrati, scontrati, ci siamo legati uno all’altra, ci siamo fatti del male e ci siamo curati come meglio ci riusciva, per poi separarci e continuare per strade diverse. Con l’arrivo al capolinea di piazza Matteotti arriva anche la consapevolezza della fine. Ci guardiamo dritti negli occhi e vorrei che fosse tutto come prima. Vorrei che ci guardassimo come si guardano due vecchi amici, non come due persone che hanno perso qualcosa che non riavranno più. Il pullman finisce la sua corsa e i pochi passeggeri rimasti iniziano a scendere. Ci alziamo in contemporanea e tu mi lasci passare per prima, io ti ringrazio con un sorriso appena accennato. E se solo un mese fa ci affrontavamo qui, a muso duro, arrabbiati, feriti, ora c’è solo il silenzio. Il silenzio con cui ti allontani e mi volti le spalle per l’ennesima volta. Il silenzio con cui incasso il colpo e lascio che il mio cuore si sgretoli in mille pezzi senza fare rumore, per non darti soddisfazione. Il silenzio che ha occupato il posto delle urla. Soltanto i posti in cui siamo stati e abbiamo vissuto gridano ancora i nostri nomi.

Pubblicato: 1 Giugno 2021
Fascia: 19+
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