Vedevo la mamma abbracciata al papà sul letto di Amelia. Avevo sentito i suoi singhiozzi, alcuni più forti di altri, e mi ero affacciata dalla porta semichiusa della cameretta mia e della mia sorellina. Riuscivo a percepire la schiena della mamma alzarsi e abbassarsi in modo scomposto, come se ad accarezzarla fosse la mia mano e non quella di mio padre. Potevo vedere la faccia distrutta di mio padre. Stava trattenendo le lacrime e lo vedevo: lo vedevo che si sforzava di essere forte per mia madre. Delle lacrime calde iniziarono a rigarmi il viso, silenziosamente, senza che me ne accorgessi.
Avevo capito tutto, eppure nessuno mi aveva detto nulla. L’avevo capito dagli occhi afflitti di mio padre e dal pianto disperato di mia madre. La mia sorellina, Amelia, era volata via, come il palloncino che, ogni volta in cui usciva dall’ospedale, le regalavo e che, puntualmente, si lasciava scappare via dalla presa fragile della sua piccola mano intorno al nastrino. Mamma, allora, si affrettava a comprargliene un altro, ma Amelia mi aveva confessato che lo faceva apposta. Le piaceva vedere quel palloncino giallo diventare un puntino sempre più piccolo, man mano che saliva verso il cielo. Diceva che, poi, la sera, si affacciava dalla finestra e lo riconosceva, che lo rivedeva in una delle stelle che decoravano il cielo.
Aveva creato, così, un mosaico di diamanti su un letto di velluto nero. Avevo capito che era volata via proprio come quel palloncino; che non sarebbe tornata più, ma che avrei potuto guardarla, parlarle e ammirarla ogni sera perché io l’avrei riconosciuta: anche in una tempesta di stelle lei sarebbe stata quella più brillante.
La mamma, quando le chiedevo perché accompagnassimo sempre Amelia all’ospedale, mi diceva che un mostro molto cattivo navigava nel suo sangue e che i medici, che aveva soprannominato «cavalieri», avrebbero aiutato Amelia a sconfiggerlo. Lei era forte e buona e, visto che in ogni fiaba le belle e candide principesse vincono contro le streghe cattive, lei avrebbe vinto. Quel giorno, però, non c’era un lieto fine, era una vera e propria sconfitta: la principessa era caduta in un sonno profondo e neanche il più forte dei principi avrebbe potuto svegliarla.
Avevo otto anni, quando Amelia, di soli cinque, era andata via. I miei genitori avevano provato a tenere duro, a sembrare forti, come se tutto potesse andare bene e la fiaba continuare proprio come da copione. Ma i pianti soffocati tradivano le parole dette per tranquillizzarmi. Il conforto di una bugia non poteva reggere e mi sembrava di sprofondare nella crudeltà di un’orribile verità. Io, però, avevo sempre cercato e preferito la verità. Non credevo a ciò che mi dicevano: io lo sapevo, l’avevo capito. Quando i miei genitori si convinsero finalmente a dirmi la verità, cercando le parole più giuste, non versai neanche una lacrima e non proferii parola. Mi rifugiai sul letto di Ameila, cercando il suo odore, che, però, sembrava svanito. Avevo smesso di parlare. La mia voce era volata via proprio come la risata allegra di mia sorella.
Non volevo parlare più, se non con lei. Non volevo raccontare i sogni e gli incubi che facevo la notte, se non c’erano i suoi occhi verdi, attenti e sorpresi a osservarmi, mentre parlavo; non volevo più inventare storie sui nostri pupazzi preferiti, se non c’era lei ad aggiungere altri dettagli; non volevo più cantare la sigla dei nostri cartoni animati preferiti, se non c’era anche la sua voce ad accompagnarmi. Non rispondevo alle domande della mamma e non ridevo alle battute di papà. Ero sprofondata in un lungo silenzio, che niente e nessuno poteva e riusciva a interrompere. Mi sentivo svuotata di qualcosa, come se una parte che mi componeva e mi teneva in piedi mi fosse stata strappata via. Sentivo un’assenza, un vuoto che non potevo riempire, se non con tutte le parole che reprimevo e ingoiavo. Trascorrevo le giornate circondatea da suoni e parole che, oramai, non mi appartenevano più.
Era passato un anno dalla morte della mia sorellina. Era passato un anno, da quando avevo smesso di parlare. I miei nonni per il compleanno mi avevano regalato una lavagnetta con un pennarello, così, dato che avevo imparato a scrivere e a leggere, avrei potuto rispondere alle domande che mi venivano poste. Quel giorno, il 26 settembre 2017, i miei genitori avevano deciso di traslocare. Avevano affittato un nuovo appartamento più piccolo di quello in cui vivevamo e con un grande terrazzo. Forse volevano andare il più lontano possibile da quella casa, che non faceva altro che ricordare Amelia. Erano passati così tanti giorni da quando era volata via che cominciai ad assuefarmi alla sua assenza. Ero nella stanza che avevamo adibito a «stanza dei giochi». Stavo scegliendo attentamente i giocattoli da portare con me e quelli da lasciare nella casa vecchia. Trovai una grande scatola rosa. C’era di tutto: peluches, bambolotti con tutti i loro accessori, travestimenti per Carnevale e poi, in fondo, quasi nascosta, un audiocassetta grigia. Mi incuriosì e la portai a mia madre. Non sapeva neanche lei di chi fosse e come facessimo ad averla. Decidemmo, allora, di ascoltarla. Inaspettatamente, sentimmo la voce angelica e infantile di Amelia. Mi girai verso la mamma e vidi che era sorpresa tanto quanto me. Sembrava quasi spaventata, finché non scoppiò in un pianto silenzioso che non riuscì a soffocare. Nel frattempo si levavano nell’aria risate allegre di tanti bambini e ne rimasi incantata. E, poi, ciò che più mi colpì furono delle parole: «Lascio tutti i miei giochi a mia sorella Virginia perché lei è una bella e brava bambina e le voglio tanto bene: io ora devo volare».
Riconobbi subito la sua voce, che da tempo mi sembrava solo un’illusione. Il tono era felice, ma stanco. Rideva faticosamente insieme agli altri bambini, ma rideva con allegria. Quell’audiocassetta, quelle parole, quelle risate mi sorpresero. Volevo risentirle ininterrottamente, ancora e ancora. Iniziai a risponderle con semplici monosillabi; immaginavo che potesse sentirmi, che aveva voglia di parlare con me. Ridevo con lei e iniziavo a prendere i suoi giocattoli per portarli via con me. In quel momento, qualcosa dentro di me si sbloccò. Avevo capito che potevo parlare e ridere anche io come gli altri bambini. Ascoltavo la sua vocina leggera e, mentre ero nella nostra camera quasi spoglia di ogni mobile, cercavo di riprodurre con la mia voce le sue parole. Quando avevo capito di non essere sola, che lei c’era ancora lì con me, mi sentii di nuovo completa, come se qualcosa fosse rinato dentro di me. Mi registravo mentre emettevo piccoli suoni e piano piano riprendevo a parlare. Iniziai a canticchiare, mi sembrava più semplice e più divertente e, così, mi salvai.
Mi sono salvata da un lungo silenzio cantando e sono rinata grazie alla voce calliopea della mia sorellina. Erano notti che continuavo così: imparavo a cantare da sola in una piccola camera con una penna come microfono. Quando iniziai di nuovo a esprimermi a parole, dimenticando la lavagnetta, gli occhi dei miei genitori e delle maestre mi guardavano rincuorati e sorpresi. Decisi, allora, di voler studiare canto, di fare di quella salvezza un futuro.
Lo avrei fatto per ricordare Amelia e per amare me stessa.
