Bianco. Bianco ovunque. Bianco negli occhi, nelle pupille, bianco tra le labbra, latte cagliato, morte prematura, vita che scorre in vene senza più sangue, infestate da inganni e ragnatele. Vivevo così, nel bianco più assoluto, nella purezza e nell’innocenza più candida. Non credevo di voler conoscere altro – insomma se il bianco è il colore degli angeli perché cercare il nero, il rosso, il grigio? Io non cercavo niente, non cercavo la morte, non cercavo la luce, vivevo nel bianco, pungente quanto il sorriso che ogni giorno la mia Roma riusciva a regalarmi. In quel bianco non ci vedevo nulla di male, ci vedevo soltanto un riflesso di ciò che ero, senza macchia e senza paura, semplicemente perché non potevo avere nulla se non quel maledetto bianco con cui campare. Ma il mondo era ancora bianco e benevolo, un Dio velato come il Nilo. Non sapevo. Semplicemente camminavo, lontano, vicino, accanto. Poi arrivavo e mi bloccavo, con un ennesimo respiro mancato e mille ancora da respirare. Mi perdevo nelle volute di colonne arroccate, in tramonti di agrumi e profumi grassi. A volte scuotevo la testa e sbattevo contro tutto, volendo a ogni costo toccare qualcosa che non fosse me stessa. Così spesso incontravo altre persone, che mi fissavano senza capire, alcune invece scuotevano la testa con me. Un giorno una donna mi prese il viso tra le mani e appoggiò la sua fronte sulla mia. Mi guardò fissa e i suoi occhi erano color menta; mi accarezzò le guance e scese di fretta dall’autobus: io per pomeriggi interi mi guardai fissa allo specchio e mi riconobbi solo nel riflesso. Quando il cielo diventava bianco, mi confondevo tra le nuvole e con me si confondeva il mondo. Il Colosseo non era mai esistito sulla mia nuda terra, gli orologi giravano in un quadrato sbilenco e la vita correva al contrario. Se un sorriso bagnava le mie labbra lo faceva solo per dissetarmi e non farmi cadere nel baratro. Nell’Edipo Re di Pasolini, la Sfinge avvertiva lo sventurato Edipo che l’abisso in cui la spingeva in realtà era dentro di lui. Non avevo mai capito cosa intendesse, gli abissi erano troppo neri per me. Spingendo via la mia Sfinge forse sarei caduta in una vallata di neve, come coperta avrei avuto il silenzio, cieca dal primo istante. La Città Eterna non mi amava, ma ero nata fedele amante, e da lei mai mi sarei staccata. Ogni mattina mi trascinavo dietro un telo bianco di quiete davanti al bar Morello e aspettavo l’autobus. Sopra nessuno mi parlava mentre io parlavo a tutti, con uno sguardo, l’amplesso di un palmo, un bacio nascosto e ritirato, un gioco di gambe che danzavano nel corridoio di persone che inghiottiva. Ma io ero bianca e gli altri guardandomi vedevano il mare, nei miei occhi un’onda. Le mie dita erano frammenti di spuma, le mie mani spicchi d’acqua. Così mi infrangevo sul rostro del mio stesso petto e lo sterno si spezzava, nessuno se ne accorgeva, scuotevo la testa per tornare in me. Come se tutto il mio corpo tremasse in un sussulto, immergevo i miei occhi in un liquido scaduto, che aveva profumo animale, di provincia. Vedevo la decadenza che zampillava in fonti che di fresco non avevano nulla. Incontrai il nero che stingeva sulle pareti in graffiti, che graffiava marmi e divorava come edera finestre e portoni. Guardai, muta. Nel frattempo il sole mi baciava e sembrava già notte, il torpore avvinceva la mia pelle come velluto e io mi abbandonavo a qualcosa di simile al sonno. La prima volta che la notai, lei non si accorse di me, mi sforzavo di apparire grigia. Mi vide in un giorno di aprile, e io arrossii in preda a un calore che da anni non mi apparteneva più. Mi resi conto dopo poco che mi aveva guardato senza avermi visto. A scuola mi chiamavano per cognome. Nessuno era in grado di ricordarsi il mio nome e con il tempo l’avevo dimenticato anch’io. Ogni tanto mi raccontavo che era colpa loro, di tutti quelli che non capivano il mio bianco: era solo mia, che mi ero resa bianca giorno per giorno, levigando la mia pelle sotto pietra pomice e vestiti leggeri quanto piume. Allora, su quel maledetto autobus, seduta o in piedi, non facevo altro se non aspettare che qualcosa cambiasse realmente. Quando le persone parlavano, scappavo in sentieri vorticosi che avevano il mio profumo, ascoltandole entravo nelle loro vite e rubavo bocconi di tranquillità, sorsate di vino rosso come le loro passioni, e gemiti, e sussulti, e grida, e silenzi. Tutt’a un tratto poi uscivo fuori dalla stessa bocca da cui ero entrata, iniziavo a respirare di nuovo con i miei polmoni e guardavo fuori dal finestrino; Roma mi attendeva. Lei lambiva le mie labbra, e il suo vento mi leccava gli occhi, saliva nelle orecchie, bellezza scomparsa. A volte mi sembrava che la vita non avesse nulla, proprio come me, solo che forse lei era un po’ più nera, un po’ più rossa. Assomigliava a un enorme gatto che corre e rincorre la coda, anche se non l’ha più, mozzata da giochi di prestigio che si sono rivelati veri d’improvviso. «Vado a tagliarmi capelli, li faccio un po’ più corti, per cambiare. Che ne dici?». «Certo, stai bene». Nessuno ascoltava niente, bastava osservarle un attimo tutte quelle sagome nascoste da cappelli, da occhiate furtive e smorfie disgustate. Avrei voluto gridare. Ma dentro di me spine di rose mangiavano la gola appena aprivo bocca, erano petali bianchi quelli che mi uccidevano. I miei anni correvano da sempre sullo stesso binario, sullo stesso autobus, che mi portava nelle crepe della città, in labbra mature e liquide, dentro quelle grotte scavate al fianco di larghi viali, che nessuno notava e che tutti sotterravano. Un po’ più in là, sulla destra c’è la panetteria dove mia mamma comprava il pane e flirtava con il fornaio, che aveva sempre farina ovunque. Una volta mi aveva toccato con un dito calloso la punta del naso e mi aveva sporcata. Dietro l’angolo avevo dato il mio primo bacio, pieno di saliva e emozione, si era coagulato in un sospiro lasciato scappare non appena ero rimasta sola e il muro di mattoni mi aveva accolto in un abbraccio. C’era chi diceva che la luna al mio cospetto sarebbe apparsa scura, non sapevano che ero figlia di un suo raggio. Conoscevo ogni sasso di quella città che mi aveva cullato e vomitato appena avevo capito. Salire sull’autobus, sentirmi sola in compagnia di altre cinquanta persone, era la normalità, la tranquillità, che accettavo con un tic nervoso dell’occhio sinistro. Nell’attesa spesso mi rosicchiavo le unghie, come un meticoloso topolino. Se mi fossi vista avrei riso, così spaventata, così indifesa, un candido agnello pronto per il sacrificio. Sarei stata liscia come la seta, sulle mie cosce avrebbero corso desideri che non volevo soddisfare, sulle mie mani promesse da far scivolare via in un nastro di raso – sarei rimasta immobile sull’altare eretto sopra Roma tutta, e avrei atteso; chissà se almeno il mio sangue sarebbe sgorgato rosso. Dal mio finestrino riuscivo a intravedere sogni passati e a volte scorgevo quelli che ancora dovevano venire, anche se alla fine dimenticavo tutto, in un salto e un singhiozzo. Vidi occasionali amanti scambiarsi l’anima in vicoli che avevano spiato la grandezza di Roma, vidi ciottoli ricoperti di bile e asfalto, vidi sentieri che si facevano spazio tra scheletri di plastica e mozziconi di sigaretta. Quando lo dicevo a casa non ci credevano al fatto che fossi bianca. Credevano fossi matta, forse lo ero, non potevano vedermi bianca mentre lacrime di mascara rigavano le guance e inondavano la bocca. Ogni mattina una vecchia signora dai capelli grigi sedeva al terzo posto della fila e iniziava a contare. Io la guardavo; mi sono sempre chiesta cosa contasse e con me l’autista. Non seppi neanche perché lasciai che i miei vestiti cadessero giù. Quella mattina, come un bicchiere di vino scivolarono per la gola dell’autobus. Nessuno fece nulla, tutti presi dalla vita che scorre tra dita e reti inestricabili. Erano sguardi languidi, i loro, per una volta mi sentii sporca, malata. Sotto la camicetta che sbottonai palpitava un reggiseno in pizzo nero. Slacciai anche quello, in un bacio d’aria. Un uomo mosse gli occhi ma non si alzò. Le scarpe le lanciai in fondo. I pantaloni li tolsi lentamente, sfilandoli come se stessi uscendo da un delicato bozzolo e spiccare il volo fosse una possibilità e un desiderio vicino. La signora dai capelli grigi continuava a contare: ventisei, ventisette, ventotto. Le sue labbra screpolate mi diedero il tempo per danzare su un filo. Roma mi osservava come tante volte avevo fatto io, e mi sentii finalmente amata. Erano baci gli sguardi che ci scambiavamo attraverso i finestrini aperti. …Ventinove, trenta, trentuno. Gridai e mi osservarono con gli stessi occhi di Roma, l’unica cosa che non si voltò fu il vento. Era come se fossi la cosa più bella che avessero mai visto, come un cigno tra cornacchie. Aprii le braccia. La signora dai capelli grigi tacque e io ascoltai la città respirare sotto me. Continuai a contare io per la signora, ogni passo, ogni carezza che vedevo spargersi su quell’autobus. Sembrava un oscuro teatro, mentre Roma da dietro tirava i fili, trucidava con lo sguardo ogni iniziativa e sperava che tutte le sue strade finissero nella città del nulla. … trentadue, trentatré, trentaquattro. Roma mi sussurrò “Ti amo” in un pomeriggio invernale, con un cappio di vento attorno al collo. Non risposi: avevo smesso di amarla da quando mi aveva sputata sul ciglio della strada; da quando, nuda davanti a lei, non mi aveva riconosciuta.

