Gli applausi cominciano ad affievolirsi, a svanire. Il mio sguardo si stabilizza sui fogli davanti ai miei occhi. «Fantaisie-Impromptu, F. Chopin» leggo, come se non l’avessi già letto un centinaio di volte prima. Il silenzio comincia a farsi largo tra il riverbero degli applausi e di qualche colpo di tosse, e io abbasso lo sguardo sui tasti. Quei tasti così familiari… eppure, in quel momento, così sconosciuti: il bianco si mischia al nero, e quella tastiera che conosco a memoria inizia a confondersi, a ingarbugliarsi. Mi riscuoto da quel torpore: mano sinistra sul la bemolle, un conto alla rovescia si fa largo nella mia testa, com’è mia abitudine per concentrarmi prima di iniziare a suonare. Ma i tasti si fondono, il volto del piano, così familiare, si contorce in un viso sconosciuto e terrificante. Erano tre anni che non mi succedeva.
All’improvviso, mi trovo di nuovo al teatro della mia città, su uno sgabello più alto, le mani molto più piccole. Dietro gli spartiti, che dipingono stavolta «Gymnopedie No 1, Eric Satie», non c’è una folla di spettatori, ma quattro uomini dallo sguardo cupo e concentrato. Le parole di mia zia rintoccano nella mia mente:
«Cloe, è un’occasione che non puoi lasciarti sfuggire. Quel conservatorio accetta pochissimi studenti».
Come un monito, quelle frasi mi martellano nella testa, mentre cerco disperatamente di iniziare a suonare. Per sbaglio premo un tasto, poi altri due. Le note errate risuonano nella sala quasi vuota. Tossisco, mentre i miei sensi ormai assopiti lottano per riemergere dalla bufera di pensieri che imperversa nella mente. Anche se la sala è silenziosa, quelle voci continuano a gridare, ad aggredirmi, ad assordarmi come spari. I proiettili bucano l’aria sopra le trincee in cui mi sono inutilmente rifugiata. Mi tappo le orecchie, mentre le esplosioni si fanno sempre più forti, sempre più vicine. Assordanti, imperterriti sciabordii che avanzano, aggrediscono le mie orecchie e il mio cuore fin quando mi alzo, emergo dalla trincea. I proiettili mi colpiscono e, tra le lacrime, corro via dal palco.
Mentre quel ricordo svanisce, un altro si fa largo davanti ai miei occhi: sono a casa mia, assordata dalle grida dei miei parenti furibondi. Mia madre e mia zia strillano l’una contro l’altra, mio padre tenta di trattenerle. Io rimango seduta su quel divano, che sembra inghiottirmi.
«Questo è per colpa della pressione che le metti, ti rendi conto? Sei una donna adulta, se tu non sei riuscita a entrare in quella scuola, non devi proiettare le tue insoddisfazioni su di lei!»
«Non hai mai insegnato un briciolo di competitività a tua figlia! Non capisci che ha del talento?»
Continuano così a gridarsi contro, fin quando mia zia non esce sbattendo la porta di casa. Ma quel silenzio non dura per molto, perché mio padre rincomincia a gridare:
«Te l’avevo detto che non dovevi nemmeno iscriverla! Tua sorella è una pazza, le stai permettendo di controllare la vita di nostra figlia».
Io mi sento piccola, al di sotto delle loro urla, mi sento piccola in confronto alle loro aspettative. Quel divano si avvinghia a me come una ragnatela, mi avvolge, mi trascina giù, mi soffoca, ma almeno mi protegge.
Questo ricordo svanisce di nuovo e ne compare un altro: sono ancora in casa, seduta al tavolo della cucina, lo sguardo appannato dalle lacrime sopra un quaderno a quadretti. Le mie pupille scattano da un’equazione all’altra, cercando disperatamente di capire quello che la professoressa non aveva spiegato in classe, ma che io avrei comunque dovuto saper fare nel test del giorno dopo. Non ci sono compagni che mi possono aiutare: non si tratta di una semplice verifica, ma di un esame vero e proprio, che avrebbe deciso la mia ammissione a un corso avanzato di matematica. Il dolore al petto cresce, i miei polmoni hanno sempre meno spazio per respirare, e i miei singhiozzi si fanno più rapidi, più rumorosi. Le aspettative si accumulano ai miei piedi, mi trovo in alto, troppo in alto. Le vertigini artigliano il mio stomaco, annebbiano la mia testa e comincio a tremare. Quella montagna diventa sempre più alta e aguzza, lo spazio sotto i miei piedi scompare, la nausea mi annebbia i sensi e all’improvviso cado. Inizio a precipitare nel vuoto, da quell’altezza vertiginosa, mentre quella montagna di aspettative mi crolla addosso, mi travolge e mi seppellisce. Esco di casa di corsa e, in quella sera gelida, decido di abbandonare il test.
Ed eccomi di nuovo lì, davanti al pianoforte. Le lacrime spingono da dietro la mia fronte: vogliono uscire, mi sussurrano di mollare tutto, di correre al riparo da quegli sguardi, da quelle voci. Proprio quando mi stanno accerchiando, sovrastando, travolgendo, una domanda si fa largo tra di loro come un fascio di luce.
Di chi sono queste voci?
Poi altre domande, come in una reazione a catena:
Che cosa sanno di me? Perché do loro ascolto?
Sempre più incalzanti, più rapide:
Perché mi fanno così tanto male? Che senso ha tutto questo?
Ma soprattutto:
Perché sono loro a decidere al mio posto?
I tasti bianchi cominciano a dividersi da quelli neri, la tastiera assume quel volto che tanto adoro e un’ultima, grande e splendente certezza squarcia la coltre di oscure domande che mi soffoca: io amo suonare il piano. Io amo suonare e amo anche la matematica. Amo la soddisfazione di risolvere un’equazione al primo colpo, l’euforia di completare un problema lungo due pagine, la gioia di riuscire a trovare una soluzione dopo essermi scervellata per ore.
Amo i suoni soffici ma decisi dei tasti, che sembrano sciogliersi sotto le mie dita come burro nella padella di un abile cuoco, amo suonare mentre fuori piove e i fulmini vanno a tempo con gli spartiti di Listz, amo le melodie di Beethoven. La mia vista torna lucida, quanto tempo era passato? Non mi importava: mano sinistra sul la bemolle, un conto alla rovescia e via.
Inizio a suonare, finalmente libera. Sorrido felice mentre le mia dita volano tra le note di Chopin. Faccio un errore, poi due, ma non mi fermo, e non me ne curo nemmeno: continuo a suonare, a muovermi in quella tastiera ormai così familiare e rassicurante. Continuo a correre, in un campo di battaglia adesso senza proiettili. Continuo a volare, planando sopra quella montagna di aspettative che sembrava avermi travolto. Insieme a me, vola anche il tempo. Mentre quei teneri, ultimi arpeggi risuonano tra gli spalti, una lacrima di gioia attraversa il mio viso e, dopo quel tenero, dolcissimo accordo finale, il pubblico, che era per me completamente scomparso, riemerge in una cascata di applausi scroscianti. Mi alzo anche io e, ancora con le lacrime agli occhi, faccio un inchino.
Per me, però, quegli applausi non sono un riconoscimento per la performance. Quegli applausi sono per i pianti trattenuti, per i denti stretti, per le braccia contratte e le dita torturate dall’ansia. Quegli applausi sono per Cloe, sono per il mio coraggio.



