L’ultimo giorno dell’umanità sulla Terra, il sole splendeva. Neppure una nuvola a coprirlo, i raggi illuminavano l’ambiente come mai prima; sembrava che, con quella luce, il pianeta volesse dirci addio, nonostante il male che gli avevamo causato. Anch’io dissi addio: alla famiglia, agli amici. Non alla Terra però, no. Io e lei avevamo ancora diverso tempo da trascorrere insieme.
Quando quella sera chiusi gli occhi, su tutto il globo eravamo rimasti in diecimila. Presto, in superficie non sarebbe rimasto più nessuno.
Il giorno seguente, partii. Con me, quattro completi estranei come compagni di viaggio, che avevo il compito di proteggere. Sulle nostre spalle, e su quelle del resto dei diecimila, gravava il peso della salvezza della Terra.
Nel 2030 l’umanità fallì: l’Agenda era stata un gigantesco flop, nessuno degli obiettivi era stato portato a compimento e, quindici anni dopo, l’umanità dovette abbandonare la Terra. L’ONU era stato tempestivo nell’agire, per una volta; in quel tempo record, fu trovata e approntata una soluzione che riparasse ai danni causati dalla nostra specie in millenni di permanenza sulla superficie del pianeta. Esaminando attentamente tutti i dati raccolti nell’ultimo secolo, si concluse che, affinché la Terra avesse il tempo di rigenerarsi, l’umanità doveva sparire. Scienziati e ricercatori di tutto il pianeta si riunirono per trovare una soluzione che non prevedesse lo sterminio di massa. In pochi anni, gli studi si erano conclusi positivamente e furono cominciati i lavori necessari per rendere il sottosuolo, designato come rifugio per il genere umano, abitabile: l’opera di riciclo fu colossale e si costruirono dei tunnel con pareti rinforzate da materiali riutilizzati. Gli operai procedettero ad una velocità inimmaginabile e, in quindici anni circa dal proprio fallimento, l’umanità compì il primo grande passo per la rinascita della Terra.
Gli esseri umani portarono con sé tutte le conoscenze acquisite nei secoli, in modo che niente si perdesse: al loro ritorno in superficie tutto sarebbe tornato alla normalità ma, ben consci dei propri errori, non li avrebbero ripetuti.
E così, da un giorno all’altro, l’umanità sparì senza lasciare traccia, o quasi.
Proprio in quel quasi stava il compito di noi diecimila: eliminare le tracce rimaste prima che diventassero tossiche per la Terra. Nella fretta di andarsene, l’uomo aveva lasciato dietro di sé progetti che non avrebbero mai visto la luce. A noi, il compito di gettare quei progetti nel dimenticatoio.
Fummo divisi in gruppi da cinque e inviati ovunque in giro per il globo terrestre; lasciare le scorie radioattive a decantare in sicurezza, disattivare definitivamente centrali di qualsiasi tipo, dal nucleare all’idroelettrico, ripulire le acque: avevamo molto da fare.
Eravamo squadre eterogenee, con tutte le competenze utili al compimento dell’operazione. Io ero un soldato, deputato a proteggere i miei compagni di viaggio, specialisti in tutti i settori necessari per svolgere il nostro compito.
Prima che partissimo, dai radiofoni dell’aeroporto dove ci trovavamo, adibito a base di partenza per noi diecimila, una voce metallica chiamò a rapporto nell’hangar un membro per squadra: quando tornò, James aveva uno zaino pieno di dispositivi elettronici, con tanto di libretti di istruzioni. In mano, teneva quello che sembrava un sofisticatissimo walkie-talkie: me lo porse, dopodiché ci sedemmo per ascoltare le istruzioni che lui e gli altri avevano ricevuto nell’hangar.
Il segnale di partenza arrivò dopo pochi minuti. Una task force dopo l’altra, l’aeroporto iniziò a svuotarsi. Per ogni gruppo che partiva, un nuovo segnale dava il via al successivo. Dopo tre ore, fu il nostro turno. Prendemmo i nostri zaini e ci incamminammo lungo il corridoio che portava fuori dalla struttura. Quando sentii il calore del sole sul viso, accostai il dispositivo alle labbra:
«Squadra numero 797: 10 marzo 2046, ore 10:17 del mattino, inizio dell’Operazione NTL. Passo.»
16 aprile 2046, Zaporizhzhya, Ucraina
«Squadra numero 797 a rapporto. 16 aprile 2046, ore 06:23 del pomeriggio: Zaporizhzhya, Ucraina, è ufficialmente innocua. Passo e chiudo.»
Allontanai il walkie-talkie dal viso e sorrisi soddisfatto ai miei compagni.
«A proposito di Ucraina, non c’era la guerra qui? Come ha fatto l’ONU a convincere quel pazzo di Putin a collaborare a tutta questa storia del sottosuolo?»
«Facile. Lo hanno fatto uccidere.»
«Che ne sai? Potrebbe essergli successo di tutto, i Tg non sono mai stati chiari riguardo alla fine delle ultime guerre.»
«Nat, lo hanno fatto uccidere a me.»
30 novembre 2046, Genova, Italia
«Squadra numero 797 a rapporto. 30 novembre 2046, ore 09:57 del mattino: tutti gli individui dell’acquario di Genova sono stati liberati nel proprio habitat. La squadra 549 assicura che gli ambienti sono sicuri e privi di elementi potenzialmente letali per la fauna. Passo e chiudo.»
28 febbraio 2047, Torino, Italia
«Squadra numero 797 a rapporto. 28 febbraio 2047, ore 02:45 del pomeriggio: tutte le centrali idroelettriche in Piemonte sono state private di turbine e l’acqua delle dighe ricollocata adeguatamente. Passo e chiudo.»
31 maggio 2047, Milano, Italia
«Squadra numero 797 a rapporto. 31 maggio 2047, ore 03:39 del pomeriggio: i prodotti tossici della centrale chimica per edilizia locale sono stati smaltiti. Passo e chiudo.»
17 dicembre 2049, Brokdorf, Germania
«Squadra numero 797 a rapporto. 17 novembre 2049, ore 11:05 di sera: tutte le scorie radioattive della centrale di Brokdorf sono state messe in sicurezza. Passo e chiudo.»
3 agosto 2053, Ginevra, Svizzera
«Squadra numero 797 a rapporto. 3 agosto 2053, ore 07:41 del mattino: il CERN è sicuro. Passo e chiudo.»
Mi sedetti sui gradini all’esterno del centro di ricerca. Non lontano, i miei compagni si raccontavano dettagli della vita passata. Stavo per alzarmi e raggiungerli, ma una mano si posò sulla mia spalla, bloccandomi, e Natalia si sedette vicino a me.»
«Anche questa è andata.»
«Sembra di sì.»
«Non abbiamo ancora rischiato la vita, però: non ti senti un po’ inutile? Da militare ammazza-dittatori sei diventato il nostro addetto alle comunicazioni.»
«Non mi lamento. Se il mio usare il walkie-talkie significa che siete al sicuro, mi sta più che bene.»
Silenzio. I lunghi capelli raccolti nella coda alta si riversarono sul mio torace quando Nat appoggiò la testa sulla mia spalla. Iniziò a giocherellarci, io feci lo stesso.
«Stavo pensando di tagliarli. Sono sporchi e rovinati.»
«Ti stanno bene anche così.»
Altro silenzio. Si staccò da me e mi guardò negli occhi.
«Devo davvero dirlo, Marco?»
Socchiusi gli occhi e avvicinai i suoi capelli alla guancia.
«No. E non devo farlo neanch’io. Ci penseremo non appena tutto questo sarà finito.»
Sorrisi.
«Quando saremo lì sotto ti porterò all’altare.»
10 ottobre 2056, Monti Urali, Russia
«Squadra numero 797 a rapporto. 10 ottobre 2056, ore 11:36 del mattino: abbiamo localizzato la prima delle seimila bombe nucleari russe. Procediamo al disinnesco. Passo e chiudo.»
1 gennaio 2058, Siberia, Russia
«Squadra numero 797 a rapporto. 1 gennaio 2058, ore 12.00 del pomeriggio: l’ultima bomba nucleare in Russia è stata disattivata con successo e non rappresenta più un pericolo in alcun modo. Possiamo affermare con certezza che era l’ultima su tutto il pianeta. Passo.»
«Ricevuto. A tutte le task-force, raggiungete l’entrata più vicina a voi e scendete nel sottosuolo. Dichiariamo ufficialmente conclusa l’Operazione No Traces Left. Passo.»
«Squadra numero 18, ricevuto. Passo e chiudo.»
«Squadra numero 932, ricevuto. Passo e chiudo.»
«Squadra numero 475, ricevuto. Passo e chiudo.»
«Squadra numero 2, ricevuto. Passo e chiudo.»
«Squadra numero 1185, ricevuto. Passo e chiudo.»
«Squadra numero 797, ricevuto. Passo e chiudo.»
1 gennaio 2097
Il primo giorno del secondo anno dell’umanità sulla Terra, faceva freddo e nevicava ovunque. Nell’emisfero australe, splendeva il sole. In Artide ed Antartide per chilometri e chilometri non si vedeva che ghiaccio. All’Equatore faceva caldo come sempre. In ogni parte del mondo, c’era il clima giusto. In ogni parte del mondo, la temperatura era quella che avrebbe dovuto essere il primo gennaio.
Quella mattina, portai Anna in biblioteca. Natalia ci avrebbe raggiunti più tardi, insieme a Nina. Ci fermammo in strada a giocare con la neve. Nonostante i miei settantaquattro anni, riuscivo ancora a giocare con mia nipote come avrei voluto fare con mia figlia: peccato che sottoterra non nevichi.
Camminando verso la biblioteca, incrociammo persone di ogni tipo: il mondo era cambiato, l’umanità era cambiata. Non esistevano più nazioni né capi di Stato. Non c’erano più Africa, America, Oceania, Europa, Asia, solo Terra. La globalizzazione, tanto agognata e temuta dal genere umano, era avvenuta naturalmente, una volta nel sottosuolo. In un contesto simile, non c’era tempo per fare distinzioni di razza, genere o sessualità: ognuno contava, che credesse in Dio, in Buddha o in nessuno. Non aveva importanza, eravamo tutti uguali davanti ai nostri errori, e dovevamo essere uniti per porvi rimedio.
Così, quella che un tempo era Roma adesso era un centro multietnico come tutte le città del pianeta. Le biblioteche erano le nuove scuole: per comprendere una cultura globalizzata, bisognava studiare tutte quelle che la costituivano; per preservare l’idillio che l’uomo aveva faticato così tanto a ricostruire, era necessario apprendere gli errori del passato per non ripeterli.
Quando avevamo fatto ritorno in superficie, davanti a noi c’era un’occasione per ripartire da zero. Libri, ricerche, manuali: avevamo conservato tutto. Mancavano solo le ricerche sul nucleare, sui combustibili fossili e su qualunque tipo di arma. Nel nuovo mondo che stavamo per costruire non c’era bisogno di tutto ciò. Le produzioni precedenti sarebbero riprese, ma in modo più consapevole e moderato. La Terra era rinata: ora era il nostro turno.
Chiusi il libro che stavo leggendo e mi alzai. Mi diressi verso il gruppo di bambini, dove mia moglie, mia figlia e mia nipote mi aspettavano: strinsi la mano all’insegnante, che ci introdusse alla classe e mi lasciò la parola.
«Ciao a tutti. Sono Marco, ex membro della task force numero 797; io e Natalia siamo qui per raccontarvi come, anni fa, gli esseri umani hanno fallito e deciso di salvare il mondo.»
Respirai profondamente e guardai mia moglie: le sorrisi, le rughe sul suo volto che raccontavano la stessa storia di quelle sul mio. Mi voltai verso i bambini e, in un attimo, tornai nel 2046.
«L’ultimo giorno dell’umanità sulla Terra, il sole splendeva.»