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Fascia 19+
19 luglio 1992

(Liberamente tratto dalle testimonianze dei parenti di Paolo Borsellino)

Una ragazza sta leggendo un libro seduta accanto alla finestra. La storia la prende tanto che non riesce a staccare gli occhi dalle pagine. Mentre segue la vicenda che assorbe tutta la sua attenzione, sente un improvviso rumore che sale dalla strada. Sarà stato un incidente, si dice. E riprende a leggere. Ma subito dopo ecco un altro colpo. Il vetro della finestra trema. Perfino il libro trema fra le sue mani. Ma lei non vuole a nessun costo staccarsi dalla pagina. Che mi importa di quello che succede in strada!, si dice. Al terzo colpo però è la casa intera che si scuote e traballa. E lei non può fare a meno di alzarsi e avvicinare la faccia al vetro. Quello che vede le fa cadere il libro dalle mani…

Sento in lontananza le auto della Polizia o forse è un’ambulanza a sirene spiegate che, avvicinandosi, fa talmente tanto rumore da far tremare i vetri. Devono essere arrivati proprio sotto casa della nonna, che è in una viuzza stretta e nascosta, magari perché qualcuno si è sentito male nella palazzina accanto, o c’è stato un incidente. Io non mi sono accorta di nulla e non mi affaccerò alla finestra come una pettegola impicciona per vedere cosa accade; l’unica cosa che mi importa in questo momento è il mio esame. Devo concentrarmi.

Non faccio nemmeno in tempo a pensarlo che un rumore assordante mi fa tremare; il libro mi cade dalle mani e faccio un balzo all’indietro sul letto. Una nube di polvere nera invade il cielo limpido di questo pomeriggio di mezza estate.

Sei giorni prima

Era tempo che non vedevo il sole splendere come oggi; inizio finalmente a sentire il calore di luglio che, dalla finestra del salotto, arriva sulla mia pelle ancora bianca, o meglio rossiccia, il massimo che sono riuscita ad ottenere tra un giorno di studio e un altro. Eppure vivo in Sicilia, la regione del mare, delle arance, ma soprattutto del sole! Un lunedì pomeriggio del genere, il 13 di luglio, dovrei passarlo sguazzando nell’acqua, non è possibile che a metà dell’esta- te sia riuscita ad andare in spiaggia solo poche volte.

L’università mi assorbe, per questo spesso credo di esagerare con lo studio, soprattutto quando penso alle mie amiche o a mia sorella Fiammetta che in questo momento si sta divertendo in Thailandia con gli amici.

Certo, sarebbe tutta un’altra cosa se potessi studiare nella tenuta estiva dei nonni a Villagrazia di Carini: quel bel terrazzino vista mare, immerso nel verde… Che bei ricordi d’infanzia, quanti giochi nelle calde giornate estive passate a correre e a scherzare con i miei fratelli. Dovrei dividere quel posto con Manfredi che sta preparando l’esame di Diritto Commerciale. Vuole seguire le orme di papà. Purtroppo, però, quest’estate rimarremo entrambi a Palermo, insieme alla mamma; non credo che riusciremo a fare grandi progetti per le vacanze, a causa del lavoro di papà. Dice che per sicurezza è meglio rinunciare alle vacanze al mare, di nuovo.

Ecco, se studio in maniera così assidua e determinata sicuramente è soprattutto merito suo. Papà ce lo ripete sempre: «La cosa più importante per voi devono essere gli esami, lo studio, indipendentemente da ciò che accade intorno alla nostra famiglia. Dovete fare la vostra parte, tutti la dobbiamo fare. Dovete farvi una posizione con le vostre forze, raggiungere gli obiettivi più alti, non grazie al vostro cognome, ma alle vostre capacità».

18 luglio

Ormai è quasi arrivato il giorno dell’esame, solo quarantott’ore e sarò libera. Sono così felice di essermi preparata al meglio, ma soprattutto gioisco alla sola idea che finalmente potrò godermi anche io l’estate. Ho sognato questo mo- mento ad ogni chiamata di Fiammetta… mi ha incantato con i racconti che sono riuscita a strapparle nelle nostre veloci telefonate, su quanto siano meravigliose Bangkok e le altre città orientali. Anche Manfredi ha dato il suo di esame, quindi l’unica ancora relegata in casa sono io.

19 luglio

Stamattina ho ripassato gli ultimi argomenti a casa di Laura, ma è domenica e non posso mancare al pranzo di famiglia. La mamma mi ha detto che il professor Tricoli, storico amico di papà, ci ha invitati, noi e gli zii, nella sua residenza estiva a Villagrazia proprio accanto alla casa dei nonni.

Mi piacerebbe passare la giornata lì, ma non si è mai ab- bastanza sicuri prima di un esame di Farmacognosia. Se riesco li raggiungo verso mezzogiorno.

Purtroppo non faccio in tempo, allora decido di andare a trovare la nonna e di ripassare lì da lei gli ultimissimi dettagli prima dell’esame. Devo essere al massimo per domani. Mi farò riportare a casa da papà, tanto per via d’Amelio ci deve passare comunque. Lo aspetto, e leggo, sempre più assorta, le formule e i principi farmacologici. Quasi non mi accorgo della nonna, che mi chiede se voglio un bicchiere di limonata.

Sento in lontananza le auto della Polizia o forse è un’ambulanza a sirene spiegate che, avvicinandosi, fa talmente tanto rumore da far tremare i vetri. Devono essere arrivati proprio sotto casa della nonna, che è in una viuzza stretta e nascosta, magari perché qualcuno si è sentito male nella palazzina accanto, o c’è stato un incidente. Io non mi sono accorta di nulla e non mi affaccerò alla finestra come una pettegola impicciona per vedere cosa accade; l’unica cosa che mi importa in questo momento è il mio esame. Devo concentrarmi.

Non faccio nemmeno in tempo a pensarlo che un rumore assordante mi fa tremare; il libro mi cade dalle mani e faccio un balzo all’indietro sul letto. Una nube di polvere nera invade il cielo limpido di questo pomeriggio di mezza estate. Sono paralizzata dallo spavento e subito, nella mia mente, soggiunge la nitida immagine del 23 maggio scorso che tutta l’Italia, purtroppo, ha potuto osservare dai telegiornali nazionali.

No. Non è possibile, non voglio pensare al peggio. Raduno le forze e il coraggio che negli ultimi mesi si sono dileguati dalla mia anima, soppiantati da un terrore ormai radicato in me dopo gli ultimi drammatici avvenimenti che hanno riguardato colleghi e amici di papà.

Nell’istante in cui mi alzo per avvicinarmi alla finestra sento ancora un barlume di speranza, che però è destinato a spegnersi subito: macchine in fiamme, polvere e urla di- sperate; antifurti che suonano, mormorio di gente che si avvicina curiosa, e le sirene spiegate delle prime vetture che giungono in soccorso. Ciò che temevo di più al mondo è accaduto. Resto immobile, di fronte alla finestra, mentre la radio di sottofondo annuncia: «Attentato in via D’Amelio a Palermo, indirizzato al magistrato Paolo Borsellino, impegnato da anni nella lotta alla mafia».

Il mondo mi crolla addosso. Non posso credere a quel- lo che vedo e che sento. Non è possibile.

Arrivano i pompieri, la polizia, l’ambulanza. Mi accorgo che la facciata del palazzo di fronte non esiste praticamente più. Arriva Manfredi, di corsa; scendo in lacrime, lo abbraccio forte. Siamo disperati, vogliamo sentire soltanto il nostro papà che ci rassicura, con la sua calma e sicurezza, come solo lui sa fare. Purtroppo non è possibile.

La macchina carbonizzata, il corpo coperto da un lenzuolo bianco. Non è possibile, continuo a ripetermi, non è possibile.

Portano via i corpi e io e Manfredi restiamo lì, in silenzio, abbracciati, senza parlare, senza piangere. Ad un tratto si avvicina un uomo; lo riconosco, è il presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che ci chiede di seguirlo. Capisco cosa dobbiamo fare in quanto familiari. La mamma arriverà a momenti, così mi faccio coraggio e dico a Manfredi di prendersi cura della nonna che è rimasta in casa, disperata.

Mi scortano presso il centro di Medicina Legale, entro in una stanza bianca, fredda. Un tavolo coperto da un lenzuolo macchiato di sangue. Il dottore mi dice che non c’è bisogno che lo faccia, non è necessario. Ma io devo, io voglio.

Alzano il lenzuolo e riconosco a malapena mio padre. Il corpo è dilaniato, coperto di sangue, mutilato. È dura vedere il proprio padre così, ma cerco di concentrarmi sul viso, sereno come sempre. Lo osservo come una bimba che guarda per la prima volta un’ape su un fiore. Nei lineamenti riconosco in quelli di Manfredi, gli occhi chiusi come dormisse, la fronte sporca di polvere e i baffi folti, ricoperti di fuliggine, quei baffi che sono sempre stati il segno in- distinguibile di un uomo che ha combattuto fino in fondo, affrontando con passione il male per cui si è battuto tutta la vita.

«Ciao papà» gli dico, e capisco che, nonostante tutto, è morto con il sorriso sulle labbra, il sorriso di sempre, quel ghigno immancabile che spuntava dai baffi. Mi dà forza, e finalmente capisco cos’ha cercato di insegnarmi in tutti questi anni. Io, tutti noi abbiamo dei doveri da rispettare: lui ha rispettato il suo.

Non voglio che la mamma, Fiammetta, la nonna e gli altri lo vedano in questo stato. Voglio vestirlo e prepararlo per domani, quando sarà allestita la camera mortuaria. Un grande uomo come lui deve concedere a tutti i suoi sostenitori, amici, parenti di salutarlo un’ultima volta.

Quanto a me devo compiere il mio dovere. Non posso perdere la concentrazione. In fondo, e amaramente, tutti noi temevamo che questo giorno prima o poi sarebbe arrivato; tutti noi vivevamo nel terrore, dopo l’attentato a Falcone. Ma domani è lunedì 20 luglio 1992 e io devo sostenere l’esame. Devo compiere il mio dovere.

20 luglio

È mattina, sono all’università. Sento un mormorio al mio passaggio tra i corridoi. Non ho ripassato le ultime formule ma ormai sono qui, sento chiamare il mio nome dal professore.

«Lucia Borsellino».

Chiudo gli occhi, faccio un respiro profondo ed entro in aula. I compagni di corso mi fissano stupiti, ma io cerco di restare calma e concentrata. Arrivo davanti al professore che non sa cosa dire quando gli porgo il mio libretto universitario.

«Signorina, non credo che lei debba sostenere l’esame,» dice impacciato «se vuole possiamo rimandare».

«No, non possiamo» rispondo io.

Pubblicato: 1 Giugno 2021
Fascia: 19+
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